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CINA: Oltre venti milioni

di disoccupati

2009-02-03

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2009-02-03

Mobilitato l'esercito per il rischio di rivolte popolari. Il 65%

del reddito nelle zone rurali veniva dalle rimesse degli emigrati

Oltre venti milioni di disoccupati

fanno tremare il governo cinese

dal nostro corrispondente FEDERICO RAMPINI

Oltre venti milioni di disoccupati fanno tremare il governo cinese

PECHINO - Dopo l'Islanda, la Grecia e l'Inghilterra, l'escalation delle agitazioni sociali provocate dalla crisi ora minaccia la nazione più popolosa del pianeta. Con 27 milioni di disoccupati ufficiali nelle sole zone rurali, le autorità di Pechino temono il dilagare di violente proteste. E si preparano a usare mezzi estremi per garantire l'ordine. Vent'anni dopo il massacro di Piazza Tienanmen, i vertici del regime tornano a usare un linguaggio da stato di emergenza, con l'appello all'esercito perché si prepari a "fronteggiare molteplici minacce alla sicurezza nazionale". La Commissione centrale delle Forze armate, riunita sotto la guida di Hu Jintao (che è anche segretario generale del partito comunista e presidente della Repubblica), ha esortato l'Esercito Popolare di Liberazione a "obbedire senza esitazioni alle direttive del partito, in qualunque momento e in ogni circostanza". Questo serrate-i-ranghi arriva dopo numerosi avvertimenti dei leader sui rischi di disordini interni legati alla situazione economica. Per effetto della recessione globale in Cina hanno già perso il lavoro più di 20 milioni di lavoratori immigrati "dell'interno", quelli che dalle campagne si erano trasferiti a lavorare nelle zone urbane industrializzate. Lo ha annunciato ieri lo stesso governo di Pechino, nella prima giornata di ripresa dell'attività dopo la settimana di festa nazionale per il Capodanno lunare. Secondo i dati resi noti dal ministero dell'Agricoltura, sui 130 milioni di lavoratori immigrati il 15,3% ha perso il posto ed è tornato a risiedere nelle regioni rurali d'origine. Se si aggiungono coloro che erano già disoccupati, e la crescita demografica naturale della forza lavoro, si arriva a un totale di 27 milioni di disoccupati solo per le zone rurali.

"Risolvere il loro problema è essenziale per garantire la pace sociale", ha dichiarato ieri Chen Xiwen, direttore della Commissione per l'agricoltura. Se è vero che in questo frangente l'agricoltura "è l'unica rete di protezione, l'unico Welfare State di cui disponiamo", secondo le parole di un alto dirigente della banca centrale, è anche vero che la produttività dei campi non basta a mantenere questo esercito di disoccupati di ritorno.

L'impoverimento degli operai licenziati ha un effetto a catena sulle famiglie contadine: la stessa banca centrale stima che il 65% del reddito nelle zone rurali veniva dalle rimesse degli emigrati. Già sul finire dell'anno scorso la regione industriale del Guangdong, nel sud del paese, è stata sconvolta da scontri violenti con la polizia. I licenziamenti collettivi avvengono senza regole: migliaia di padroncini originari di Hong Kong e Taiwan hanno fatto bancarotta e sono spariti senza lasciare tracce, hanno chiuso le fabbriche defraudando gli operai di molte mensilità di salari arretrati. Una volta senza lavoro, quegli operai venuti dalle campagne non hanno indennità di disoccupazione né assistenza sanitaria, i loro figli non hanno diritto all'istruzione gratuita. Sono cittadini di serie B che non hanno più nulla da perdere, un serbatoio esplosivo di instabilità sociale. La loro esasperazione può saldarsi con un altro fronte di disagio: la crescente disoccupazione intellettuale, che colpisce le giovani generazioni istruite, i figli del ceto medio nelle grandi città. Un recente studio del governo stima a un milione e mezzo il numero di giovani laureati senza lavoro nelle zone urbane. Perfino i mass media cinesi, controllati dalla propaganda di Stato, cominciano a dare visibilità a questo fenomeno. I telegiornali trasmettono immagini delle job-fair, le fiere di reclutamento organizzate dalle aziende, dove la massa dei giovani diplomati e laureati cresce a vista d'occhio mentre le opportunità di assunzione si fanno sempre più scarse. La fine del "sogno cinese" per le giovani generazioni urbane è destabilizzante per il regime, che negli ultimi decenni ha costruito lo zoccolo duro del suo consenso proprio nei ceti medi.

Il richiamo alla disciplina di partito rivolto da Hu Jintao all'Esercito di Liberazione Popolare si aggiunge a un altro segnale di nervosismo: la dura repressione scatenata contro Carta 08, un nuovo movimento di dissenso nato nel dicembre scorso con un appello per i diritti umani e le riforme democratiche. Carta 08 ha raccolto più di settemila adesioni, anche fra funzionari governativi e di partito. Il governo non vuole correre il rischio che il ventesimo anniversario di Piazza Tienanmen ispiri una nuova protesta di massa, alimentata dai costi sociali della crisi. I leader di Pechino si sono dati un obiettivo cruciale: raggiungere un tasso di crescita dell'8% nel 2009, dopo il brutale rallentamento dell'ultimo trimestre 2008 (quando il Pil è cresciuto solo del 6,8%). Quel traguardo dell'8% è considerato il minimo indispensabile per arginare l'aumento della disoccupazione. Perciò durante la sua visita ufficiale a Londra il premier cinese Wen Jiabao ha accennato alla necessità di varare una nuova manovra di spesa pubblica per sostenere la crescita, dopo quella già annunciata tre mesi fa e pari a circa 580 miliardi di dollari. Ma lo sforzo di spesa per rilanciare lo sviluppo comincia a lasciare il segno sullo stato delle finanze pubbliche.

Alla fine del 2008 il bilancio dello Stato è passato in deficit per 111 miliardi di yuan (circa 16 miliardi di dollari). Il bilancio pubblico era stato in attivo per tutto il 2007 ed anche durante i primi 11 mesi del 2008, periodo nel quale era arrivato a segnare un saldo positivo di 1.224 miliardi di yuan.

(3 febbraio 2009)

 

 

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